Bello è qualcosa che appassiona, che si capisce senza bisogno di acrobazie, una forma armonica o totalmente disarmonica, ma eccitante, coinvolgente,

di Marco Masetti

L’estetica, come del resto l’etica, è vittima della storia. Quando l’occhio cade sulle bellezze aliene oggi di moda, frutto del pesante lavoro di squadre di chirurghi estetico-plastici, la reazione è ben lontana dall’apprezzamento sincero. Fanno paura, tutto qui. Culi finti, tette finte, zigomi da lemure spostati di due dita in alto, labbra mostruosamente canottate (nel senso di simili ad un canotto, perdonate il neologismo), unghie degne di un horror movie, faccette al posto dei denti. E via con la lista della spesa della nuova bellezza aliena, fatta per umiliare le altre più che per sedurre. Come a dire: “Poveraccia, guarda che io ho addosso un lavoro che vale più del buco di appartamento nel quale vivi”.

Bene, avrete capito che parlando di donne lo scrivente è un conservatore-tradizionalista. E parlando di moto come siamo messi?

In un’epoca in cui un’enduro stradale deve avere almeno 140 cavalli per non essere definita “un bolso cancello”, in una fase in cui controlli elettronici e connettività sembrano più importanti della sensazione irripetibile di guidare un oggetto piacevole e armonico, non aspettatevi capolavori. Almeno dal punto di vista estetico.

Le moto moderne sono tendenzialmente figlie di due filoni: l’automobile e l’ingegneria. Due mondi molto razionali, spietati, legati a valori misurabili e ben poco attratti dall’arte. Due esempi per capirci meglio: la MotoGP, autentica palestra tecnica di questa epoca, ha la creatività bloccata. Pensate un po’, è regolamentata anche la misura massima dell’alesaggio con un valore di 81 millimetri, e tutte le moto si somigliano molto; in ogni caso sono tutte quattro cilindri.

Nel mondo auto va ancora peggio, con un diffuso conformismo stilistico che, segmento per segmento, rende di difficile lettura marche e modelli. E le moto somigliano sempre più agli scooter, con la plastica che ricopre un non sempre prestigioso e qualitativamente apprezzabile metallo.

Le moto moderne vanno benissimo, sono veloci e ragionevolmente sicure (sebbene solo nelle mani di un esperto, perché le bombe da 150 cavalli in su sono difficilmente gestibili) ma raramente belle.

Cosa significa “bello”? Qualcosa che appassioni, che venga capito da tutti senza bisogno di acrobazie di marketing. Una forma armonica o totalmente disarmonica, ma eccitante, coinvolgente, leggibile. Per capirci: alcuni concept di MV e BMW sono belli, come lo sono le Ducati Panigale con la loro aria da vere moto da corsa italiane, cioè di colore rosso e con forme che abbiamo dentro di noi e che meriterebbero un ripasso della storia dell’arte. Perché, magari inconsciamente, vengono da lì. Da Michelangelo, più che dal computer.

 

Molte altre hanno il loro perché, pur senza essere capolavori estetici. Possono essere ottime moto, ma non diventeranno mai oggetti a contenuto artistico, come invece è capitato a moto decisamente poco pretenziose ma ricche di idee e di stile come la Yamaha XT 500, la BMW R90 S o la Honda CB 750 Four o, per stare più vicini alla nostra epoca, la Ducati 916, la MV Agusta F4, la Honda RC30, la Triumph Speed Triple.

Ingegneri e designer lavorano molto per trovare idee nuove e di successo, ma il risultato spesso non viene fuori, anche perché – a limitare ulteriormente il già basso tasso di fantasia di questa epoca, determinato anche dall’uso compulsivo del computer senza il quale pare non si possa nemmeno immaginare un segnalatore di direzione – intervengono pesantemente gli uomini del marketing e della produzione delle varie Case costruttrici di moto. Senza dimenticare la follia dei burocrati che non sembrano apprezzare molto la creatività applicata ai mezzi di trasporto. A essere molto leggeri nel giudizio nei loro confronti.

 

 

Ma il vero problema sono le persone che sono cambiate, e parecchio. Fino a pochi decenni fa la moto era un oggetto quasi magico, capace di calamitare interessi e passioni apparentemente inconciliabili tra loro. Trasporto popolare a basso costo, sport, emozioni virilmente connotate, senso di appartenenza e, all’opposto, esaltazione dell’avventura in solitario. Tutto e il contrario di tutto: nel suo più recente periodo d’oro che va dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta la moto è stata il mezzo ideale per chi aveva in testa due valori che si chiamano avventura e libertà. Bene, le persone nate negli ultimi decenni non sognano più questo, oppure lo vivono in maniera molto diversa, con una visione che non prevede più la moto.

 

I soldi ci sono, eccome. Basta fare una botta di conti a quello che hanno addosso molti ragazzini tra sneaker di culto (che poi, per spiegarlo a mia mamma, sarebbero delle scarpe da ginnastica che costano una follia), felpe dai marchi esoterici, jeans di altissima gamma, monili vari, tatuaggi e parrucchiere per la manutenzione della chioma, e già una moto usata salterebbe fuori. Poi mettiamoci uno smartphone top di gamma e qualche altra minchiata tecnologica e siamo già a cifre interessanti messe in campo dal nostro ragazzo.

Che in moto non ci va, per la disperazione di chi costruisce e vende due ruote. Non siamo in un periodo di grande crescita economica ma un po’ di soldi tra nonni e genitori sono rimasti, e però vanno da un’altra parte. Sfiga…

Così i costruttori provano a trovare il filone giusto e ad allevare una nuova popolazione di motociclisti che dia il cambio a quella dei baby boomers, irripetibile nella sua durata e nella passione, ma oramai segnata dall’usura del tempo.

Qui non si parla di tecnica e tecnologie produttive, ma di moto dal punto di vista estetico-emozionale. E il risultato non è molto esaltante: si vede molto tecno-machismo (chiedo perdono per l’ennesimo neologismo) di derivazione racing. Roba bella, eccitante, ma impegnativa e iper aggressiva, da vedere ma anche da guidare. E magari qualche volta ci sarebbe la voglia di girare leggeri, con una marcia alta e un filo di gas, rilassati e sereni e non sempre in erezione prestazionale e con l’adrenalina perennemente a mille, qualcosa che non sarebbe venuta in mente nemmeno a Dante nel definire le pene dell’Inferno.

Bene, siamo a questo punto pronti alla domanda più scontata di sempre: quale futuro per la moto? E poi: ci sarà ancora spazio per i capolavori? E per la creatività degli appassionati c’è speranza?

Per ora ragioniamo sulla carne messa al fuoco. Per il futuro c’è tempo. Più o meno un mese ( il prossimo appuntamento su Ferro).