Il suo “Hotel California” fu una trasmissione cult negli Anni ’90. Poi la vita negli Usa, la passione per le Harley. Storia di Guido Prussia, animo nomade e cervello in movimento.

Recentemente, per muoversi in America, Guido Prussia ha comprato un van. “È uno Chevy di quelli vecchiotti, pagato 4.000 dollari, ma con gli interni allestiti bene: puoi viaggiare comodo e dormirci dentro, ma non è un camper vero, non ha bagno né acqua, perciò la notte mi fermo spesso nei parcheggi dei Walmart, che sono aperti h24, per lavarmi la faccia oppure per avere tutto a portata di mano se ho bisogno.

Nei miei viaggi in auto mi sono fermato frequentemente davanti agli Starbucks: ci stai fino alla chiusura, e anche rimanendo lì fuori con il sedile della macchina ribaltato a mo’ di letto hai il wi-fi disponibile; e la mattina aprono presto, così ti fai subito un caffè, ti lavi, e cominci bene la giornata. Col van non si può: se lo parcheggi davanti alle vetrine e ti metti a dormire dietro arriva subito la polizia che bussa e ti infila la luce della torcia elettrica attraverso i finestrini, per vedere chi sei e che fai.

Ho girato gli Stati Uniti con moto, auto, e con quel van, che adesso ho lasciato parcheggiato in un deposito fuori Los Angeles. Sono monogamo in questo senso: ho vagabondato quasi sempre negli Usa. Ho realizzato il mio sogno di bambino viaggiando e facendo di questo un lavoro, che volere di più?”.

Guido Prussia in Australia con una BMW R 1200 C.
Guido Prussia in Australia con una BMW R 1200 C.

Lui si definisce un “raccontastorie” capace di catturare e narrare le cose che piacciono e che stimolano la fantasia, soprattutto di chi sogna e ama gli States.

Nato 55 anni fa a Genova, giornalista e documentarista, eterno look da cowboy romantico e tatuaggi a coprire quasi ogni centimetro di pelle, Guido Prussia ha fatto conoscere l’America, principalmente l’ovest, con “Hotel California”, una trasmissione televisiva Mediaset in tre stagioni, dal 1997 al 1999, un format che precorse i tempi, quasi un reality, girato in digitale, una novità per la tv di allora.

A quelle tre serie ne è seguita una realizzata in Australia, realizzata per la Rai nel 2000 in occasione delle Olimpiadi, poi Road to Hollywood per Marco Polo TV, più alcuni documentari italiani, anche per il Ministero del Turismo.

“Sono cresciuto con i miti americani, Happy Days alla televisione, Tex Willer in edicola, Grease al cinema; ho letto Kerouac, ho sognato la Route 66, gli spazi sconfinati, il Big Sur… poi ci sono arrivato: con la telecamera ho raccontato le curiosità e le cose vere di quel mondo. Le sono andate a cercare, viaggiando spesso da solo, perché così sei costretto a socializzare, a conoscere quella gente che poi entra in empatia e ti racconta la sua storia, ti dice cose sorprendenti che neanche immagini. Ho fatto sei volte il coast to coast, con mezzi diversi, e molti itinerari sulla costa ovest. Ho conosciuto i pellerossa: già da piccolo ero dalla loro parte, e sono ancora oggi affascinato dalla loro storia e dal sistema di vita delle loro comunità, organizzate senza regole scritte, ma con ferrei principi. L’America è un posto dove puoi immaginare e sognare, dove ti puoi innamorare, infatti una volta mi ci sono pure sposato!”.

Come sei arrivato al progetto di Hotel California?

“La cosa nacque quasi per caso: ero in Mediaset, a Italia1, lavoravo come giornalista a contratto per programmi come Ciak, per il quale ho intervistato, tra gli altri, Ben Kingsley e Akira Kurosawa. Andai in America in vacanza e portai con me una telecamera Sony, la prima digitale in commercio. Realizzai un bel po’ di girato e me lo portai a casa montando subito una puntata zero, tutto di mia iniziativa. A dire il vero avevo già proposto il progetto prima di partire all’allora direttore Giorgio Gori che di primo acchito mi disse che non se ne parlava neppure. Con il montato pronto riuscii a convincerlo a mandarlo in onda: fu un vero boom!”.

Quale è stata la forza di questo format?

“Andavo a cercare i miti, passando talvolta dalla porta di servizio, ma arrivando a segno raccontando le cose che ogni turista curioso andrebbe a cercare: sono andato a Hollywood a rovistare nella spazzatura di Marlon Brando, di Jack Nicholson, Brad Pitt, di Madonna, e mostravo le estreme stranezze dei vip.

Sono andato all’incrocio di Cholame dove James Dean volò via con la ‘Little Bastardʼ, sono riuscito a intervistare Pamela Anderson, sono andato a cercare la casa di Happy Days (ora ci abita un signore giapponese) e ovviamente quella del mio mito Jeffrey Lebowski (‘Il Grande Lebowski’) a Venice, Los Angeles… ma non ho avuto il coraggio di bussare per non rompere le palle al fortunato proprietario del famoso villino!

Invece devo dirvi che il bowling dove il Drugo, Walter Sobchak e Donny andavano a giocare e a perdere tempo, beh quello non esiste più. Comunque, il programma fu un vero successo. Lo fornivo a costo zero, era, come si dice, un progetto barter, dove gli sponsor sostengono le spese di realizzazione. Aveva ascolti molto alti e al terzo anno di programmazione arrivammo al top con la realizzazione di un libro, un sito dedicato e una compilation distribuita su cd”.

E poi?

“Poi ho deciso di andarci ad abitare in California e ho lasciato il contratto che avevo alla televisione per andare in America davvero: tre anni per entrare al cento per cento in quella realtà. Ritornai per la morte di mio padre. Dopo Hotel California ho fatto una versione australiana durata una sola edizione, commissionata dalla Rai in occasione delle olimpiadi: sono arrivato all’Ayers Rock percorrendo quelle strade interminabili con una Bmw R 1200 C. Per la serie americana avevo usato invece una Yamaha Dragstar.

Appunto: parliamo di moto…

“Per salire su una moto ho dovuto aspettare di compiere 30 anni: in casa non si poteva parlare di moto o motorini. Ricordo che da piccolo mi appiccicavo alle vetrine dei concessionari di Genova e mi accontentavo di lustrarmi gli occhi in quel modo. Così dovetti aspettare di diventare grande: a 30 anni mio padre mi regalò un appartamento a Milano, che vendetti subito per comprarmi… tre Harley-Davidson in due mesi!

Erano una Springer, una Softail e una Fat-Boy: non sapevo quale scegliere e le comprai tutte e tre! Andai a ritirare la prima in via Niccolini a Milano e alla consegna mi spiegarono come usarla: le luci qui, il bloccasterzo così, le frecce qui… Immagina lo stupore quando gli dico che io la moto non l’avevo mai guidata, e che dovevano spiegarmi davvero tutto da zero! Beh, con quattro rapide istruzioni sono diventato motociclista. Poi di moto ne sono venute altre, e tutte per me sono state ‘oggetti con l’anima’: io penso infatti che anche le cose abbiano un’anima e soprattutto le moto ti possano lasciare ricordi come gli amici che incroci nel corso della vita”.

Che motociclista sei?

“Mi piace viaggiare su due ruote, guardare il panorama con calma: non sono uno che va veloce. Ricordo viaggi molto belli come un Milano-Barcellona in notturna, con tutte quelle luci che ti scorrono a fianco e ti aiutano a fantasticare, e poi un giro pazzesco fino in Grecia attraverso Austria e Balcani.

E naturalmente i viaggi in America anche per le edizioni di Hotel California, fatti anche a febbraio per esigenze di produzione: un freddo bestiale, ma sempre in sella! Ti assicuro che malgrado il gelo non ho mai messo la moto sul carrello. Ora di moto non ne ho: l’ultima è stata una Triumph Thruxton che ho venduto poco tempo fa, ma per l’estate prossima ci sto pensando”.

Guido Prussia
Guido Prussia

Oggi che fa Guido Prussia?

“Vivo qui sulla Cisa a Berceto con i miei due cani, Baby, una staffordshire, e Jack, un lagotto. Al ritorno dall’America ero andato ad abitare a Milano, in un monolocale, poi ho traslocato qui sull’Appennino.

Dopo Hotel California mi sono inventato vari lavori: ho diretto un piccolo giornale, ho venduto magliette e ora seguo alcuni progetti tra cui ‘Ho sempre voglia di partire’ (hosemprevogliadipartire.com) che sui social conta quasi 3.500.000 visualizzazioni e 650mila interazioni alla settimana.

Realizzo i contenuti per Carrera Stories su facebook con 17mila follower e 28mila interazioni, e per il mio ‘Io da piccolo stavo con gli indiani’, che conta 215mila follower. ‘Ho sempre voglia di partireʼ potrebbe diventare qualcosa di più di un social e trasformarsi in una specie di agenzia viaggi con proposte particolari”.

Come fai a stare lontano dagli Usa?

“L’America mi manca sempre, soprattutto quella pura, on the road; pensa che quando di notte non riesco a prendere sonno, salto in macchina e vado a parcheggiare davanti all’autogrill qui vicino: dormo lì, come davanti a Starbucks! Ma presto ci torno…”. 

Credits
Testi: Massimo Tamburelli
Foto: @Tamboogarage / Archivio G. Prussia