“Nel novembre del 1979 Roberto Gallina mi chiama perché i giapponesi della Suzuki e gli sponsor lamentano l’assenza di un direttore sportivo. Gallina mi dice che proporrà me per quel ruolo. Io sono appena arrivato nel team e mi occupo un po’ di tutto, ma quello che mi offre è un bel salto avanti per uno che fino a qualche mese prima aggiustava le macchine da caffè. In squadra in quel momento corre solo Virginio Ferrari.

 

Il motomondiale

Be’, alla fine di una lunga cena accetto senza pensarci troppo. Nella stagione successiva Virginio è sostituito da Marco Lucchinelli e Graziano Rossi, e nel 1981 Lucky ci porta alla vittoria del Campionato del Mondo 500.”

 

Storia di corse, passione, successi e svolte inattese quella di Antonino Merendino – per tutti Toni – nato nel 1952 a Berceto, borgo di confine sull’Appennino parmense dove si spinge la brezza della Liguria, capitato quasi per caso nel mondo delle corse e giunto a gestire piloti, team e brand importanti nel motomondiale e alla Dakar.

“La carriera nel mondo delle corse è arrivata per caso: in famiglia non si coltivava la tradizione delle competizioni o dei motori; mio padre era ferroviere, mia madre casalinga. La mia prima volta che sono salito su una moto è stato a 13 anni, quando mio zio mi mette in sella a un Moto Guzzi Dingo 50. Vado a finire dritto in un fienile. A 14 anni mio padre mi compra un Morini Corsarino Scrambler usato, e così assaporo il gusto della libertà”.

“La svolta arriva un po’ dopo: faccio mille mestieri, e il laboratorio di riparazione delle macchine da caffè è situato vicino all’officina di un amico carrozziere che vernicia le carenature del Team Gallina; ogni tanto scendo con lui a La Spezia quando deve consegnare i pezzi pronti. Conosco così Roberto, che un giorno mi chiede se voglio guidare il camion del team alle trasferte del mondiale: chiudo per ferie il laboratorio e mi metto al volante”.

La mia prima stagione vera è quella del 1980, già in veste di direttore sportivo ma ai tempi il lavoro è diverso, continuo a guidare il camion, gestisco i piloti, siamo molto affiatati, e Gallina è un maestro eccezionale. Erano tempi in cui riuscivi a fare e inventare tutto. Oggi il mondo del motomondiale è cambiato molto: c’è maggiore pressione da parte degli sponsor, i meccanismi sono più sofisticati e poi c’è tutta la parte tecnica che richiede un controllo asettico. A quei tempi facevi un click alla forcella e convincevi il pilota che era la condizione migliore per andare a fare il miglior tempo, oggi fai un click al computer e se non l’azzecchi può andare in confusione tutta la squadra”.

“Negli anni Ottanta gli sponsor del tabacco erano entrati in modo poderoso nel mondo delle corse. La 500 era già molto affollata di questi brand, così io ho deciso di puntare sulla 250 con la Honda e un unico pilota, il compianto Doriano Romboni. Aveva un grande talento e c’era la sintonia. Dall’inizio degli anni Novanta abbiamo collezionato molte vittorie chiudendo la stagione 1994 al quarto posto, miglior risultato. Purtroppo l’anno precedente una caduta ad Assen ha compromesso una stagione in cui potevamo puntare decisamente al titolo”.

Alla Dakar

“Un giorno gli amici giornalisti Paolo Scalera e Juan Porcar mi raccontano le leggendarie imprese della Dakar, questa pazza corsa africana. Me ne sono subito innamorato e nel 1984 parto per la gara con una Mercedes 230 GE, arrivando fino al Lago Rosa in sessantacinquesima posizione. Partecipo anche all’edizione successiva e nel 1986 Carlo Florenzano di Honda Italia mi chiama chiedendomi di guidare una macchina in gara per il loro team, i piloti sono Andrea Balestrieri, Ciro De Petri ed Edi Orioli, che al traguardo si piazzano nell’ordine terzo, quinto e sesto”.

 

“L’avventura africana mi ha portato alla scoperta di nuovi orizzonti, altri popoli, altre usanze, altre realtà: quel deserto immenso ti mette alla prova e porta allo scoperto i limiti di uomini e macchine, facendoti scoprire molto di te stesso. Dopo questo triennio vissuto con passione la Dakar e i rally africani diventano un nuovo impegno professionale: la British American Tobacco decide di entrare con il caratteristico marchio di cui invento la declinazione Lucky Explorer che resterà associata in maniera indelebile alle Cagiva gestite da Roberto Azzalin, manager tecnico e sportivo di gran valore. Da brand manager partecipo a più edizioni della Dakar, e con Azzalin portiamo a casa grandi risultati. Tra le file del team Cagiva Lucky Explorer sono passati piloti del calibro di Orioli, De Petri, Claudio Terruzzi, Davide Trolli, Franco Gualdi, Jordi Arcarons, Gilles Picard e Hubert Auriol.”

Di Auriol ho un ricordo molto toccante: è la Dakar 1987, e a 20 chilometri dall’arrivo di Saint Louis, penultimo traguardo prima della tappa conclusiva sul Lago Rosa, Auriol, che in sella alla Cagiva comanda la corsa con 12 minuti di vantaggio su Ciryl Neveu, urta due grosse radici sporgenti rompendosi entrambe le caviglie e cadendo a terra. Dopo essersi fatto rimettere in sella da un altro pilota, raggiunge tra atroci dolori il traguardo mantenendo comunque un vantaggio di 3 minuti. Vedendolo arrivare mi avvicino per prendergli le mani: non so come confortarlo, non so che altro fare per alleviare quel dolore. Lui tra le lacrime mi dice “Di’ a Roberto (Azzalin) che abbiamo battuto la Honda”. In effetti la giornata successiva, l’ultima, è stata sempre considerata poco più che una passerella, ma va comunque effettuata per concludere la gara, e Hubert a quel punto non è in grado di farlo. È un ricordo che mi segna, uno dei tanti che questa gara mi ha lasciato.”

di Massimo Tamburelli – Foto Tamboogarage e archivio Merendino